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Novembre 2021

ADOLESCENTI E DIGITALE. La crescita nell’era 4.0

ADOLESCENTI E DIGITALE. La crescita nell’era 4.0 BLAST

Di Stefania Caudana

Ci sembra interessante, all’interno di questo lavoro, affrontare quali implicazioni culturali, sociali e psicologiche abbia il digitale  nello sviluppo dei giovani. In particolare se e come le “relazioni virtuali” sostituiscano, integrino o entrino in conflitto con quelle “tradizionali”. È allora necessario considerare che ogni nuova generazione, per potersi individuare, deve seguire un proprio percorso culturale. Nell’era digitale come si muovono gli adolescenti nel loro processo di crescita? Quali sono gli scenari ed i confini entro i quali si formano? Come possiamo, noi adulti, entrare in un contatto autentico con loro e accompagnarli verso l’adultità? Quale il rapporto tra il mondo reale ed il mondo immaginario/virtuale? E il corpo, così centrale in adolescenza con le sue complesse modificazioni, che ruolo gioca? Queste e molte altre domande vengono poste quando incontriamo le agenzie formative (genitori, insegnanti, educatori, …) che si trovano a dover affrontare il complesso mondo adolescienziale. Se per adolescenza continuiamo a considerare quel periodo evolutivo che ha come compito centrale il processo di separazione e di individuazione rispetto alle figure genitoriali e al modello da loro offerto, certo appare ulteriormente complicato il processo volto alla costituzione della propria identità, affiancata spesso quando non sostituita da identità virtuali che il ragazzo sente come autentiche, con l’impossibilità di vivere le necessarie esperienze, anche frustranti, che portano attraverso l’azione sul e nel  reale, alla consapevolezza della propria forza e delle proprie caratteristiche. Certo tutto ciò porta come conseguenza anche la presa di coscienza dei propri limiti: nel virtuale, in modo esattamente contrario a ciò che avviene nel reale, il mondo si apre ad una infinità di “possibili”, nessuno realmente vero, ma nessuno a rischio di doversi confrontare con il limite degli oggetti fisici. Ecco che l’adolescente, quasi per sfuggire al rischio di scoprire in cosa non eccelle, cosa non ha, nella finzionale sensazione di “potere” tutto, non permette alle proprie capacità di prendere forma, di diventare reali, con il relativo senso di poter agire sulla realtà: cercando di mantenere l’infantile sensazione di onnipotenza, aiutato dalla dimensione virtuale, sviluppa a poco a poco un invalidante senso di impotenza e di vuoto. Ma un ambiente di possibilità infinite non è per nulla nutriente, anzi diventa annichilente se non è reale. In questa onnipotenza virtuale le nostre società sembrano aver abbandonato la sfera del pensiero e ogni scelta è diventata così angosciante che non è più possibile attuarla. Si accompagna a questo uno scarso utilizzo del corpo che nell’era digitale risulta sempre più alienato rispetto alla persona, sempre meno accessibile. Spesso la difficoltà di comunicazione tra genitori ed adolescenti fa riferimento all’utilizzo di due “linguaggi” differenti: le generazioni precedenti utilizzano il linguaggio analogico _ regno in cui si sviluppa il simbolico_ mente i ragazzi utilizzano appunto il linguaggio digitale, che utilizza un sistema binario basato sulla percezione. Quest’ultimo scenario è ben rappresentato nella serie “Black Mirror”, serie cult oscura in cui le tecnologie, applicate al corpo, arriveranno a distruggere i capisaldi attraverso i quali siamo soliti definire il campo delle nostre azioni, delle nostre responsabilità, dei nostri desideri. Il tutto in una realtà frammentata come quella digitale, in cui concetti come il tempo e lo spazio subiscono trasformazioni epocali, in cui l’incontro con l’altro è sostituito dal contatto spesso mediato dagli strumenti tecnologici. Cosa possiamo fare noi adulti, disarmati dei vecchi strumenti, ad aiutare questi adolescenti digitalmente modificati? Prima di tutto dobbiamo entrare nel loro mondo, conoscerlo, farci accompagnare da loro; solo così, da dentro, potremo cercare di aiutarli a “rallentare” la velocità delle immagini, per poterne fermare qualcuna e gettare le basi per la creazione della capacità di pensiero, di ri-flessione, di argomentazione. Il digitale ha offerto grandi opportunità, se non si perde tutto quello che è la storia: anche nell’era 4.0 alcuni passaggi di crescita necessitano ancora degli stessi elementi e forse… i ragazzi stanno solo cercando i loro. Ma la ricerca richiede che non si sia soli.

“Lino G. Grandi, non ti stanchi di ripetere, quando parliamo di adolescenti, di fare attenzione a non viziarli. Ricordi come la società narcisistica e individualistica abbia preso in ostaggio gli adolescenti imprigionandoli in gabbie dorate piene di oggetti e di sollecitazioni, ma povere di relazioni e di affetti autentici. Non temiamo l’incontro con i nostri figli, né di farli soffrire. Grazie.”

LA COMUNICAZIONE IMMEDIATA DEL TUTTO E SUBITO… I SIGNIFICATI DI WHATSAPP

LA COMUNICAZIONE IMMEDIATA DEL TUTTO E SUBITO… I SIGNIFICATI DI WHATSAPP BLAST

Di Stefania Caudana

Che la comunicazione cambi continuamente grazie ai nuovi mezzi, social, app… è chiaro a tutti e non possiamo non tenerne conto. Soprattutto i giovani sembrano averne familiarità, ma anche tra gli adulti il modo di comunicare per status, like e tweet prende sempre più piede. Anzi, proprio i meno giovani appaiono più vulnerabili a certe ferite che arrivano facilmente online, spessdo per personali fragilità. La comunicazione è relazione,  pertanto anche le relazioni di conseguenza cambiano. Nelle coppie, tra gli amici, tra colleghi, la connessione costante è diventata la regola. La preoccupazione sale quando l’altro non risponde o non si connette per qualche ora. La nuova tecnologia rende necessario interpretare tutta una serie di sfumature che non sempre aiutano la relazione. Il controllo prende piede, non lasciando spazio nella relazione alla fiducia di crescere con i suoi tempi. Cosa ci dice questo? Che la comunicazione social avviene in modo diverso, impedisce sfumature, sguardi, non ha espressioni e va educata da una parte e accettata e usata con consapevolezza dall’altra.

E come la mettiamo con WhatsApp? Si tratta di un modo di comunicare veloce, aperto, per foto, vocali e brevi frasi. La cosa interessante è che questa App elimina l’imbarazzo verso l’altro in maniera ancora più netta di quanto non faccia già lo schermo di un pc quando si naviga nei social.

L’immediatezza, che ne fa un apprezzato strumento nell’epoca del “tutto subito”, spinge gli utenti ad essere molto diretti. Sappiamo quando l’altro ha effettuato l’ultimo accesso, sappiamo che ha letto il nostro messaggio, sappiamo che non ha risposto. Gli ingredienti della crisi ci sono tutti, perchè vanno a nutrire le debolezze di ognuno di dubbi, di informazioni parziali, pensieri quasi magici su quello che l’altro prova e sulle cause degli eventi.

Tutto è veloce e frammentato e segnato da ossessioni (comprare, chattare, relazionarsi, essere online) che nascondono la paura di non esistere e alimentano il senso di solitudine. In questo, app e social, da una parte offrono una finestra sul mondo sempre aperta, utilizzabile quando ci si annoia, quando si ha bisogno di qualcuno, quando ci si sente soli, dall’altra danno a tutto un colore di urgenza e di ansia qualora il nostro messaggio non venga subito recepito come noi desidereremmo. La frustrazione non trova posto in questa comunicazione. L’attesa si carica di domande che non accettano lo spazio dell’altro. Un silenzio come risposta ad una qualunque frase su WhatsApp ha il potere di abbassare l’autostima, di peggiorare l’ansia, di rinforzare la sensazione di fragilità. L’attesa diventa impossibile da accettare, come il tempo dell’altro e delle cose della vita.

Fermiamoci un attimo a pensare e valutiamo se abbiamo deciso di farci fagocitare da modi di comunicare e di relazionarci di questo tipo oppure desideriamo riprendere la consapevolezza e la gestione dei nostri rapporti, utilizzando tali strumenti di importante evoluzione con il significato che dovrebbero avere.

Trauma e psicoterapia: appunti di lavoro

Trauma e psicoterapia: appunti di lavoro BLAST

Di L.G. Grandi

L’edificio teorico del traumatismo psichico, quale teoria esplicativa della psicogenesi delle nevrosi, palesa crepe sempre più evidenti e viene sostituito dalla teoria della fantasia di desiderio. Il baricentro psicogenetico delle nevrosi diviene così appannaggio più dell’endon che della relazione. Si propone quindi una diserzione del mondo interattivo a favore di un’introflessione dello psichico nei confini della mente. I traumi infantili vengono a costituire una categoria entro la quale anche la clinica dell’adulto viene pensata. Si procede pertanto nella ricerca della “costituzione di un senso” di quanto si osserva e le caratteristiche richiamano un processo analogico metaforico.

La clinica terapeutica si deve preoccupare degli emblemi dei traumi infantili o di allusioni ad essi. Il trattamento deve poter generare “situazioni” come premesse per poter avviare prima un processo di separazione, quindi di sviluppo. Spesso si riscontra un antagonismo e un’incompatibilità fra il trauma e la sua rappresentazione. Particolare attenzione viene posta a ciò che non ha avuto luogo, e si deve considerare ciò che non ha potuto avere luogo, e cioè “un’esperienza dolorosa negativizzante” che comporta un’“auto-lacerazione”. Il traumatico finisce con l’indirizzare l’aspetto più specificatamente economico del traumatismo, in relazione alla fragilità e ad un difetto del parastimoli. Concludendo: il trauma designa essenzialmente la forza negativa e disorganizzatrice dell’azione traumatica.

SE UCCIDIAMO LA SCUOLA E GLI ANZIANI UCCIDIAMO IL FUTURO

SE UCCIDIAMO LA SCUOLA E GLI ANZIANI UCCIDIAMO IL FUTURO BLAST

Di Stefania Caudana

I segni delle mascherine pian piano svaniranno, ma non le loro tracce nella psiche e nella nostra storia.

A questo potrà giungere riparatrice la funzione narrativa che noi uomini possediamo: costruire storie capaci di raccontare ciò che è accaduto, per creare ponti simbolici e di significato che superino le fratture (traumatiche) presenti nella psiche individuale e collettiva. La speranza deve trovare spazio e per guardare avanti appare necessario rivolgersi indietro: alla storia dell’umanità, ai suoi tanti cicli, alle risorse ed alla forza che da sempre l’uomo ha dimostrato di possedere e alla possibilità di rinascita che deriva dal dolore e dalla paura, dalla conquista della libertà, in primis di pensiero e di ragionamento. Una libertà correlata al senso di responsabilità e di appartenenza. Qui si inserisce il valore della scuola e della formazione; spesso troppo attenti ai contenuti e agli aspetti prestazionali, sono molti i genitori preoccupati dal mancato svolgimento, durante l’anno di pandemia, di parti del programma scolastico. Ma ben altro li dovrebbe preoccupare. Che cosa rappresenta la scuola? Cosa hanno perso i bambini e i ragazzi in questo periodo di Covid-19? La scuola non è soltanto un luogo dove si imparano delle cose, ma un potente e fondamentale luogo formativo; è principalmente una “scuola di vita e di crescita”, un susseguirsi di esperienze che i nostri figli vivono (e speriamo tornino presto a vivere!), per misurarsi con gli altri, per riconoscere e superare le proprie paure ed ansie, per costruirsi ed impegnarsi in obiettivi, per affrontare prove, accettare fallimenti, gioire delle proprie e delle altrui conquiste, sperimentare la dimensione comunitaria e gli aspetti che la caratterizzano, incontrare i propri talenti e i propri limiti. È primariamente relazione: con se stessi, con gli altri, compagni ed insegnanti che siano. È comprensione che, come la storia insegna, si può crescere solo tutti insieme.

Da tale esperienza scaturiscono, in un continuo incontro con il diverso e con il  cambiamento che caratterizza le “cose” della vita, gli elementi necessari alla costruzione della persona: il riconoscimento del proprio valore, l’accettazione dei limiti propri e della vita, la capacità di ragionare e le nuove conoscenze, anch’esse dimensioni relazionali. I singoli contenuti e le singole materie, per quanto importanti da acquisire, rappresentano l’occasione, il ponte che permette di entrare nel mondo interno del ragazzo, creare movimento e condurlo ad un processo espressivo, cioè a dare forma e vita a quello che ha dentro, mettendolo fuori. Questo è stato tolto ai bambini ed ai ragazzi dal virus: la dimensione relazionale che sta alla base della scuola. L’esperienza ha dato la possibilità di far emergere, in quei soggetti che le possedevano, competenze organizzative rese necessarie dal venire meno del “contenitore scuola”. Ciononostante, ci si augura una ripresa degli enti formativi e scolastici in presenza per consentire (testimone giunge nuovamente la storia dell’uomo) che dalla crisi possa generarsi una forza vitale ed innovativa e che le nuove generazioni recuperino i valori fondanti dell’uomo e della vita.

Anche l’anziano, non tanto come soggetto fragile da proteggere, immagine alla quale preferisco contrapporre quella di persona a cui dedicare gratitudine e cura per ciò che ha affrontato, costruito e lasciato a noi in eredità, va visto come uno dei valori da riscoprire. In una dimensione ciclica, come ancora la natura ci insegna, l’anziano non rappresenta una candela che lentamente si spegne, ma un tassello fondamentale per la società, per i giovani e per il futuro; l’esperienza che ha acquisito, le abilità che solo lui possiede, la sua  narrazione della storia, quel guardare indietro per andare avanti, in lui e solo in lui abitano e se l’uomo dimostrerà di avere ancora un minimo di istinto di sopravvivenza e di intelligenza ne recupererà il valore ed il significato. Se uccidiamo la scuola e gli anziani, uccidiamo l’uomo e il suo futuro.

Sulla figura materna

Sulla figura materna BLAST

Di Francesca Di Summa

Svolgo l’attività di psicoterapeuta con preparazione specifica di Analista e di formatore di analisti. Svolgo altresì l’opera di consulente dei Tribunali Civili e penali adempiendo ai compiti di perito, cioè di Consulente tecnico di ufficio.

Riconsiderando la mia operatività, e confrontandola con colleghi in gruppi di ricerca e di supervisione, sono giunta a convincimenti ed aggiornamenti che sarebbe mio desiderio condividere in questa sede con gli studiosi e ricercatori qui presenti.

Considerato lo spazio concessomi, mi soffermerò unicamente su di una problematica; la espliciterò e presenterò alcune riflessioni, che vorrei qui condividere e riprendere in considerazione con i ricercatori dell’Istituto di Psicologia Individuale “A. Adler”, coordinati dal nostro supervisore, il professor Grandi.

Il concetto che presiede questa comunicazione però può essere così riassunto: “ una non completa od incongrua o disarmonica dalla figura materna nel processo di crescita psicologica di un soggetto fatalmente contribuisce al promuovere una immaturità affettiva, una carenza di progettualità, un ostacolo ad un effettivo incontro con l’altro, a disarmonie di vario ordine e genere e quindi a confluire, in modo quasi inesorabile, in un processo di crescita di un conflitto e quindi di separazione della coppia, allorché tale soggetto giunge al matrimonio.

È noto a tutti che la funzione materna presiede all’impianto delle fondamenta di una progressiva sicurezza affettiva, del processo di autostima, del riconoscimento dell’altro come “altro da sé”, e della fiducia di base, nonché di un atteggiamento fiducioso.

Una amorevole attenzione ai bisogni di tenerezza del bimbo, che solo una madre sufficientemente buona sa esprimere con misura e compiutezza, è la forza promuovente dello sviluppo delle potenzialità empatiche, del sentimento sociale e dello spirito di cooperazione dei figli. Contemporaneamente favorisce, purché non incistato in una simbiosi, il riconoscimento e la significatività della figura paterna, permettendo l’avviarsi di una costruttiva relazione, necessaria per un armonico processo evolutivo.

La figura materna consente l’espressione di cure teleologicamente orientate, non anonime, ben individuate e caratterizzanti l’incontro col proprio figlio, con i diversi figli, ognuno dei quali è realtà a sé stante, specifica ed irrepetibile; viene così reso possibile un suo originario ed originale riconoscimento, e favorisce il primo accesso al linguaggio. Nei primi due anni, l’emisfero destro del cervello del bimbo è il primo a svilupparsi ed è preposto ad elaborare la comunicazione non verbale: il cucciolo dell’uomo apprende così a riconoscere i volti ed a leggerne le espressioni, mettendoli poi in relazione con le persone. Tale emisfero elabora la componente musicale del linguaggio o il tono attraverso il quale si comunicano le emozioni; i gesti visivi non verbali tra una madre ed un bambino vengono istintivamente appresi, quindi elaborati. Si diffonde così un afflato di tenerezza, indotto da una armoniosità espressa dal non verbale e dalla musicalità della voce, musicalità che connota la relazione della madre con il figlio e che deve essere considerata con partecipe emozione, evitando- per quanto possibile- toni che possono offendere la sensibilità accentuata ed immatura del piccolo, immerso nella sua fragilità.

Il cammino verso l’acquisizione del linguaggio passa necessariamente dai suddetti percorsi e l’uso appropriato del linguaggio è un derivato dal rapporto con la madre e dalla sua voce, dal suo modo di parlargli, dall’induzione empatica di stimoli e suoni che progressivamente vengono accolti per essere riproposti.

La tappa evolutiva che si è andati a descrivere, lascia tracce indelebili nel tempo e nella strutturazione del Sé dell’uomo che sarà, quando perverrà all’adultità.

E per riprendere il tema delle difficoltà che si riscontrano nelle relazioni di coppia, lavorando analiticamente a ritroso, si perviene a disegnare una figura materna sofferente di carenze che non hanno consentito il necessario processo evolutivo e, più nello specifico per non disperdersi nella disparata gamma di disagi e di disturbi che incontriamo quotidianamente, non è stata in grado di accompagnare il figlio verso il padre, di favorirne la relazione, di organizzare le basi che avrebbero potuto consentire l’incontro.

Procreare un figlio non è causalità, è progettazione, è scelta, è concretizzazione di uno stile di vita e di una weltanschang; in definitiva è un patto che si attua ed avvera nel concepimento e che richiede cooperazione. Si debbono assumere consapevolmente i ruoli di madre e di padre: la donna e l’uomo si accingono ad introdurre modifiche nella propria vita, si preparano a fronteggiare e gestire le inevitabili variabili che la vita proporrà, si aiuteranno ad affrontare percorsi nuovi.

Spesso però la donna, assunto il ruolo di madre, tende a rimuovere i presupposti che hanno sancito il patto e promuove, non sempre consapevolmente, una dinamica relazionale col figlio che può assumere i connotati della esclusività: ciò può non essere funzionale ad una sana crescita ed evoluzione del bambino poiché può venire a mancare la pregnanza affettiva e creativa del partner, spesso invaso da sentimenti di insufficienza e di esclusione.

È pur vero che il periodo della gestazione induce l’immersione in sentimenti particolarmente intensi che favoriscono sensazioni e percezioni di esclusività, quali il sentire il nascituro come fosse parte fisica del proprio corpo, praticamente un tutt’uno, ed il momento del parto è espressione di gioia ma anche l’avvio di un distacco, di una dolente percezione che si è data la vita ad un soggetto dotato di una propria individualità e di proprie esigenze, che è altro da sé rispetto alla madre: può anche essere percepito un disagio esistenziale sgradevole, quasi si trattasse di una amputazione e spesso – per lo meno- di una deprivazione, che in diversi casi inducono il ben noto disturbo indicato come depressione post-partum. Psicologicamente si tratta di un vissuto traumatico che la donna vorrebbe in qualche misura contenere, quasi a voler ripristinare l’originaria unità mentre pressioni psico-ambientali la sommergono di stimoli perché venga accolta la separazione dal proprio figlio, il riconoscere appunto di aver generato un esserino che è “altro da sé”. La madre ferita nella sua integrità deve consapevolizzare che la relazione col figlio non è diadica, bensì deve prevedere tutto uno spazio terzo, occupato spesso in modo maldestro dal padre: e ciò tuttavia è necessario perché il bambino possa essere avviato verso un processo sano di crescita psicologica.

Perché sia consentito il processo di separazione, deve primariamente essere gestito il trauma; lo si deve ricomporre integrandolo nelle funzioni vitali dell’Io, lo si deve poter tradurre in movimento per la vita, lo si deve rivestire della visione simbolica di un atto creativo. La madre dovrà recuperare nel fondo del proprio animo quanto appreso nell’arco del suo processo di crescita ed esperienziale ed al contempo consapevolizzare la sua specificità primaria che include, non esclude , il preservare l’immagine di sé come donna; si tratta di specificità che contempla anche la maternità, ma non si esaurisce nella maternità stessa, poiché un aspetto pur importante non può né deve soffocare il valore assoluto dell’essere donna, e nello specifico la sua pregnanza di soggetto portatore di significato e di senso.

Solo ricomponendo i tasselli che configurano armonicamente l’essere donna nella variegata ed armonica unità esistenziale, sarà possibile essere madre senza annullarsi nel viversi solo ed unicamente come madre: l’auspicio è che si esprima come madre, ma “non tutta madre”, poiché diversamente sarà ben difficile che al bambino venga permesso di sganciarsi da una adesione simbiotica alla madre stessa.

Si è inoltre avuto modo di osservare che il divenire madre può soffocare positive significatività, anche relativamente ai tre ben compiti vitali. Ne vogliamo qui considerare uno, pur permanendo nell’area dell’amore. Si consideri in proposito il processo di allontanamento, il trascurare ad es. il ruolo di moglie gestito con efficacia e positività prima della maternità. È frequente constatare che il ruolo di madre ha soffocato o per lo meno ridimensionato quello di moglie. E’ come se si stesse progressivamente strutturando una nuova coppia, certamente capace di gratificazioni narcisistiche, che si nutre di se stessa ed esclude la comunità, anche la precedente micro-comunità, così come funzionava (se funzionava) prima del parto. Può pertanto concretizzarsi una nuova relazione privilegiata e simbiotica, che porta però con sé il germe del disturbo, della malattia.

Madre-bambino che si incapsulano nella relazione simbiotica, escludono inevitabilmente il padre, ne annullano la funzione, si deprivano del potenziale che può esprimere, non gli consentono di onorare il ruolo di promotore di socialità e di cooperazione, e viene così disattesa la funzione vitale necessaria per avviare il processo di separazione – individuazione.

Perché la musica ha un effetto così potente sulle nostre emozioni?

Perché la musica ha un effetto così potente sulle nostre emozioni? BLAST

La musica è l’arte che è più vicina alle lacrime e alla memoria. (Oscar Wilde)

Di Stefania Caudana

Per molti è un’esperienza comune quella di sentire una musica e di ricordare un evento, un tempo, di vivere o rivivere un’emozione. Non a caso Oscar Wilde avvicina la musica, più di ogni altra forma di arte, alle emozioni e alla memoria, cioè ai ricordi. Pensiamo che il feto, già nel pancione della mamma, interagisce e risponde ai suoni e alla musica sin dalla sedicesima settimana di gravidanza, portandone memoria e riconoscendola una volta uscito dalla pancia. Ma che cosa è la musica e perché ha effetti così potenti sul cervello e sulle emozioni dell’uomo?   Per musica intendiamo “l’arte di combinare i suoni della voce umana e degli strumenti in modo che producano una melodia per com-muovere la sensibilità, che sia con allegria o con tristezza”. Considerata una, se non la più alta, forma d’arte fin dall’antichità, si tratta di un codice, di un linguaggio universale, presente in tutte le culture e in tutti i tempi della storia dell’umanità. Una piccola ricerca ci porta a scoprire una interessante curiosità: i geroglifici che rappresentavano la parola “musica” erano identici a quelli che rappresentavano gli stati di “allegria” e di “benessere”. Inoltre, in Cina, i due ideogrammi che la rappresentano, significano “divertisti con il suono”, giocare con esso. Ricordo, anni fa, che un’amica neurologa mi raccontò di essersi accorta come una sua paziente affetta da Halzheimer non riuscisse a ricordare pressochè nulla della sua storia, se non attraverso la musica, unico linguaggio e ponte che le permetteva di recuperare e rivivere dei ricordi; ormai diffusi sono gli studi e le ricerche che applicano il campo musicale per trattare tipologie differenti di patologie, come ad esempio l’autismo. Alcune si muovono nel campo della musicoterapia, ma esistono anche progetti in cui professionalità distinte si incontrano: come nel Relational Singing Model – consapevolezza di sé e relazione, una metodologia impostata da Giorgio Guiot, musicista e direttore di coro, e dalla sua associazione Cantabile di Torino, per approfondire i legami tra canto e persona, rivolta a bambini, adolescenti e adulti che si trovano in situazioni di particolari difficoltà relazionale ed emotiva, in un dialogo costante tra canto e psicologia.  Le aree del cervello che si attivano con le emozioni e la musica sono praticamente le stesse: quando le onde della musica penetrano nelle nostre orecchie, il cervello risponde in modo automatico in base al suono, i battiti del cuore si sincronizzano con il ritmo della musica, con il potere di influenzare in modo significativo il nostro funzionamento. Infine non dimentichiamo di considerare l’aspetto fortemente relazionale della musica: capace di attivare emozioni e immagini di una storia vissuta o rappresentata in una dimensione di relazione intrapsichica, capace di unire, facendo sentire l’appartenenza – come dimostrano magistralmente gli adolescenti, che si riconoscono appartenenti ad un gruppo anche in base ai gusti musicali – in una dimensione eterospichica, sociale ed interattiva. Quindi musica come arte, come identità, come relazione, come memoria e ricordi, come emozioni, come gioco e soprattutto suono, originario, ancestrale, profondo: così potente da agganciarsi al corpo e ai suoi linguaggi e da muoverlo.

Bambini in psicoterapia

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Un percorso di psicoterapia può essere di aiuto a un bimbo sofferente e alla sua famiglia? Che cosa è in grado di attivare un processo di cambiamento e perché è possibile che avvenga? Che cosa si modifica nel bambino durante la psicoterapia? Su cosa agisce l’intervento dello psicoterapeuta? Ma, soprattutto, come si può riavviare la crescita psicologica in situazioni bloccate dalla sofferenza cercando, al contempo, di ricollocarla nel più vasto contesto familiare e sociale? A partire dall’esperienza clinica, gli autori – formati nell’Istituto “Alfred Adler” di Torino con la supervisione di Lino Graziano Grandi e Giuseppe Benincasa – suggeriscono percorsi di approfondimento teorico e metodologico utili agli psicoterapeuti dell’infanzia, ai genitori, agli insegnanti e agli educatori per calarsi nel registro espressivo e comunicativo dei bambini al fine di decodificare l’immaginario emergente dalla loro esperienza passata e presente. Al centro sono posti i processi relazionali, sempre inseriti in un contesto sociale e culturale in continua evoluzione, e che hanno origine in componenti di natura corporea ed emotiva.

Casa editrice: Carocci
Autore/i: Anna Maria Bastianini
contributi di : Saveria Barbieri, Giuseppe Benincasa, Maria Dolcimascolo, Natalia Elinoiu, Federica Fella, Stefania Giampaoli, Lino Graziano Grandi, Gian Sandro Lerda, Federica Marabisso, Silvia Mastrogiacomo, Roberto Mirante, Marco Raviola, Barbara Sini