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LA PROTESTA VIRILE NELLA DONNA : esiste ancora?

LA PROTESTA VIRILE NELLA DONNA : esiste ancora? BLAST

di Barbieri Saveria, Maffucci Cristiana.

L’opposizione tra maschile e femminile ha dominato da sempre il paesaggio del nostro pensiero e ha caricato su di sé l’evocazione di altre opposizioni fondamentali, come quella tra forte e debole, tra pubblico e privato, tra superiore ed inferiore.

Nel corso dei secoli l’essere umano ha visto depositarsi sulla propria immagine ruoli ben definiti: la donna quello di moglie, di madre che si cura della prole e a cui è affidata la gestione della casa, l’uomo quello del potere politico e sociale.

Si evidenzia così il contrasto fra interno ed esterno, fra casa e società che rimarrà per lungo tempo la principale diatriba fra donna e uomo.

Il confinamento delle donne in ambito domestico è il portato di una gabbia ideologica, ovvero di espulsione dalla sfera dei poteri e dei saperi tradizionalmente maschili, ma in esso le donne hanno saputo creare proprie forme di potere e di sapere. Il vincolo maschile, quindi, non è stato cogente complessivamente.

I compiti prima evocati davano ad entrambi un significato ed un senso.

Questa rappresentazione sta andando incontro ad una crisi profonda, che deriva anche da una critica al sistema dei valori che essa incorpora, con la superiorità del ruolo maschile e la subordinazione di quello femminile. Le nostre società hanno cominciato a mettere in discussione la stessa necessità di vivere con identità di genere definite.

Il dominio di queste identità dava sicurezze e guidava più facilmente le vite, ma produceva anche repressione e limitava le possibilità di vita, aperte a ciascuno. Quello che appare quindi, è che i ruoli dell’uomo e della donna hanno subito grandi cambiamenti. Nel contesto odierno, l’indipendenza economica della donna ne amplifica le esigenze rispetto al passato.

Come sostiene Lino Grandi ( 2002) il femminile si affaccia con prepotenza nell’arena del sociale.

Il raggiungimento di tale potere sembra accompagnarsi alla confusione dell’uomo che sente di perdereil suo potere originario.

Iniziamo la nostra riflessione partendo dal pensiero di Adler. Vedremo come egli ha trattato l’opposizione maschile –femminile nel suo impianto teorico, focalizzando la nostra attenzione sulla protesta virile.

 

 

La protesta virile, uno degli spunti di rilievo della psicologia individuale,  è un termine introdotto da Adler in riferimento sia agli uomini che alle donne, per descrivere il rifiuto del ruolo femminile dovuto ad una distorsione nell’apprendimento delle differenze sessuali soprattutto in quelle società fondate sulla supremazia maschile.

Nella donna la protesta virile assume i tratti dell’aggressività, dell’attivismo con tendenza a dominare chiunque le stia accanto; nel maschio, detta protesta deriva da un dubbio nevrotico sulla propria virilità da cui egli ricava un senso di inferiorità che compensa con un’identità fittizia di maschilità prevaricante (Galimberti, 2000).

La protesta virile comprende, quindi, tutte le compensazioni fondate sull’esasperazione di uno stile di vita improntato alla convenzionalità maschile e presume un’opinione dequalificante sullo stile di vita femminile.

Suoi presupposti fondamentali sono due coppie di concetti, anch’essi da intendersi in senso relativo al contesto storico e allo stile di una contingente società: alto = maschile e basso = femminile.

Il carattere relativo della protesta virile nasce da una precisa formulazione di A., il quale analizzando il proprio contesto sociale, individua in una tradizione ancora impostata sulla subordinazione femminile, lo stimolo di partenza per una protesta virile.

Sulla base di ciò egli ipotizzò un rovesciamento degli schemi tradizionali che se da una parte avrebbe portato ad un consolidamento del ruolo della donna in campo socio-culturale, dall’altra avrebbe generato perplessità ed ambivalenza tra i sessi.

La protesta virile si estende oltre una distinzione dei sessi anatomo-fisologica.  Infatti secondo A. le caratteristiche psichiche proprie dell’uomo e della donna sono il risultato dei costumi sociali e non sono condizionati da nessuna differenza biologica.

Egli si distanzia dalla concezione freudiana impostata sull’invidia del pene, in quanto tale concetto è limitato all’anatomia, alla fisiologia e alla pulsionalità erotica. Francesco Parenti ( 1983) non ritiene che una piccola e localizzata frazione corporea in più sia oggetto di invidia in nessun tipo di società. Egli accetta l’invidia del pene solo se con questo termine si intende invidia del ruolo assicurato dal pene.

Come vedremo successivamente nei riferimenti mitologici da noi scelti, sembra invece che un ruolo di rilievo abbia giocato l’invidia dell’utero, in quanto potere di dare la vita e la morte.

Una lunga tradizione culturale ha identificato, praticamente dalla notte dei tempi, il genere femminile con un soggetto altro dalle caratteristiche fortemente ambivalenti: purezza, pudore, innocenza, sottomissione all’uomo erano le qualità della donna angelicata; ribelli, volitive, indipendenti furono le figure femminili immortalate in una mitologia che ha percorso i secoli fino all’epoca contemporanea. Fosse angelo o demone, in questo complesso di discorsi la donna appariva comunque come una misteriosa entità da tenere a bada con le buone o con le cattive, e soprattutto come un essere ontologicamente inferiore all’uomo: la regola fondamentale di tali rappresentazioni era quella di una differenza che si declinava incontestabilmente come minorità, deficienza, imperfezione. Una simile normativa simbolica appariva alla stragrande maggioranza degli uomini complessivamente sufficiente, fino all’epoca contemporanea, a contenere entro limiti ben definiti l’identità femminile: ad essa si accompagnava naturalmente una ben più prosaica e puntuale normativa giuridica, e l’una e l’altra riproducevano un ordine diseguale del potere come forma immanente di una superiore necessità naturale, morale e divina.

Sulla base di ciò forniamo una selezione di miti classici che esemplificano quanto appena detto.

Lilith è una figura mitologica che rappresenta l’aspetto completamente libero e rivoluzionario della donna.

L’origine del nome è assiro-babilonese,  LILITU, che significa spirito del vento. Lilith o Ecate, per molte civiltà, è stata la prima donna a comparire sulla Terra, creata dal fango, esattamente come Adamo; fuggì dall’Eden, abbandonò Adamo per non subire l’imposizione di sdraiarsi sotto di lui nel rapporto sessuale, atto considerato di sottimissione e si rifugiò in una grotta sul Mar Rosso. Subito dopo la sua fuga, Dio creò, da una delle costole di Adamo, Eva che provenendo direttamente da lui, sarebbe divenuta un simbolo di devozione e di complementarietà nei suoi confronti.

Mitologia greco-romana 

Dal Caos primordiale nasce Gea, la Grande Madre Terra la quale partorisce, senza bisogno di connubio alcuno Urano (il cielo), Ponto (il mare) ed Eros (cioè l’amore creatore della vita). Col tempo a Gea vengono dati caratteri meglio definiti e diventa così la madre di tutti gli esseri viventi e, insieme, del mondo sotterraneo nel quale essi, compiuto il loro ciclo, vanno a finire.

Il potere di generare, di nutrire, di popolare il mondo identifica quindi la donna con la terra, con la quale ha in comune sia il potere di generare sia l’imprevedibilità catastrofica che fa parte del ciclo di momenti evolutivi ma che l’uomo definisce con il termine crudeltà. La Terra dunque, con tutta la sua potenza, è il femminile, l’origine, il principio dell’umanità, la Grande Dea dalla quale discende ogni cosa.

Afrodite-Venere. La dea dell’amore e della bellezza. Venere era moglie di Vulcano, dio del fuoco e della lavorazione dei metalli, ma spesso gli fu infedele. La leggenda più famosa di Afrodite è legata alla causa della guerra di Troia. Alle nozze del re Peleo con la ninfa Teti non venne invitata Eris, dea della discordia, che per vendicarsi gettò durante il banchetto una mela d’oro su cui erano incise le parole “Alla più bella”. Subito la mela venne rivaleggiata da Era, Atena ed Afrodite che si rivolsero a Zeus per un scelta. Zeus però non volle decidere chi fosse la più bella ed esse allora si rivolsero al principe di Troia Paride. Ognuna di esse gli promise un dono. Era gli avrebbe dato potere, Atene gloria militare, Afrodite la donna più bella del mondo. Paride diede la mela ad Afrodite e come dono chiese Elena, moglie del re greco Menelao. Il rapimento di Elena scatenò la guerra di Troia.

Demetra-Cerere. Figlia del titano Crono e di Rea veniva considerata nella mitologia greca la dea del grano e dei raccolti. Quando sua figlia Persefone, fu rapita da Ade, dio degli Inferi, mentre coglieva fiori,  Demetra ne fu così addolorata che trascurò le terre, sulle quali non crebbe più alcuna pianta, e la carestia si abbatté sul mondo. Preoccupato per la situazione, Zeus chiese al fratello Ade di restituire Persefone alla madre. Questi acconsentì, ma prima di liberarla le fece mangiare i chicchi di una melagrana magica che l’avrebbero costretta a ritornare da lui sei mesi all’anno. Felice di aver ritrovato sua figlia, in primavera Demetra faceva nascere dalla terra fiori, frutti e grano in abbondanza, ma in autunno, quando Persefone era costretta a ritornare nel mondo sotterraneo, il suo dolore provocava la morte della vegetazione e l’arrivo dell’inverno.

Era-Giunone. In quanto sorella e sposa di Giove, era considerata dagli antichi romani come la regina degli dei. Giunone veniva spesso identificata con Era nella mitologia greca ed anche in quest’ultima veniva considerata la dea protettrice del matrimonio. Moglie fedele e gelosa era famosa per perseguitare le amanti ed i figli di Zeus e per non dimenticare mai alcuna offesa. Le vendette di Era venivano tramandate in varie leggende, tra di esse probabilmente la più famosa è quella nei confronti del principe troiano Paride che le aveva preferito Afrodite in una gara di bellezza e che, per questa ragione, aiutò i greci nella guerra di Troia finchè la città non venne distrutta.

Artemide- Diana. Dea della Luna e della caccia, era la protettrice degli animali selvatici. Alle proprie fedeli predilette facilitava il parto. Era armata di arco e frecce con cui puniva i mortali e prometteva una morte rapida ed indolore alle donne che morivano di parto. La leggenda narra che sebbene fosse la protettrice delle fanciulle, volle il sacrificio di una vergine per permettere ai greci di salpare durante la guerra di Troia, ma, secondo alcune versioni, salvò la vittima, Ifigenia, all’ultimo momento.

Atena- Minerva. Dea dei lavori manuali e patrona delle arti e del commercio, identificata nella mitologia greca con Atena, figlia di Zeus, dalla cui testa nacque già adulta ed armata della sua lancia, di uno scudo ornato con la mostruosa testa della gorgone Medusa, dell’egida e di un elmo. Atena era anche la protettrice dell’agricoltura e dei mestieri femminili, tra cui filatura e tessitura. Nella mitologia più tarda divenne la dea della saggezza e della guerra, infatti diede moltissimi aiuti ai greci durante la guerra di Troia i quali però non rispettarono la sacralità di un suo altare dopo la caduta di Troia per raggiungere la profetessa troiana Cassandra. A causa di questo affronto Atena chiese a Poseidone di scatenare una tempesta che fece affondare la maggior parte delle navi greche che tornavano dalla guerra.

Nel mito delle Amazzoni accanto al potere, alla forza magica, appare la crudeltà, primo segno di una trasformazione del timore in vero e proprio terrore.

Le Amazzoni costituivano una popolazione residente in uno stato della regione del fiume Termodonte, sulla costa meridionale del Mar Nero. Erano governate da regine e il potere era interamente in mano loro; gli uomini erano ridotti al rango di schiavi, considerati soltanto come riproduttori e resi inabili all’uso delle armi, uso riservato alle sole donne che, per poter meglio maneggiare l’arco, sottoponevano al taglio di uno o di ambedue i seni (da qui il nome: a-mazos, senza seno). Secondo la leggenda queste donne, a parto avvenuto, uccidevano i figli maschi.

Questi miti prodotti dall’immaginario maschile, sembrano voler esorcizzare l’idea di un eventuale potere femminile.

Come già precedentemente accennato Adler, attento osservatore dei mutamenti sociali e precursore dei tempi, individuò nel mito dell’inferiorità della donna l’origine di uno stato di tensione che avrebbe disturbato l’armonia tra i sessi:

“La competizione con il maschio privilegiato ancora nella nostra società stimola nella donna il bisogno di compensare un sentimento di inferiorità incrementando l’addestramento e sviluppando maggiore energia. Questo in certe donne prelude ad una protesta virile che può dar luogo a innumerevoli conseguenze, buone e cattive, situate tra i due poli della perfezione e delle anomalie spinte sino al rifiuto dell’amore” ( 1997 p. 38).

Nel corso del XIX secolo apparve sempre più chiaro a molti uomini che i tradizionali fondamenti di legittimità della disuguaglianza di potere fra uomini e donne non avrebbero a lungo resistito alla realtà di fatto di un contesto sociale e culturale in continua trasformazione, e soprattutto — nella seconda parte dell’Ottocento — di una messa in discussione collettiva di quella disuguaglianza da parte delle donne stesse. Non si trattava più, di singole donne indisponibili ad accettare singole iniquità, ma di veri e propri movimenti organizzati, e diffusi in quasi tutti i paesi occidentali, che per la prima volta nella storia criticavano, sul piano dei diritti sociali e politici, la logica stessa del privilegio maschile nel pubblico e nel privato. I movimenti femminili colsero questa contraddizione con l’obiettivo del raggiungimento della parità di sessi, provocando l’ingresso della donna nell’ambito pubblico, fino ad allora dominio degli uomini.

Queste rivendicazioni si sviluppano nel secondo dopoguerra e soprattutto dalla fine degli anni sessanta, favorite anche dal nuovo clima che s’impone durante il movimento del Sessantotto. Esse si intrecciano col diffondersi in tutto l’occidente del movimento femminista, nato dalla riflessione sulla contraddizione fra uomo e donna e sulle diseguaglianze esistenti nella società.

La supremazia dell’uomo, secondo le femministe, tende a trovare la sua giustificazione e legittimazione in quei valori maschili, intimamente gerarchici, competitivi, aggressivi che si sono finora affermati in tutti i campi della storia umana. Di qui il carattere di forte contrapposizione, spesso di antagonismo, che il movimento assume verso la società maschilista.

Nasceva così il modello della donna moderna e le identità femminili si moltiplicarono, vissute spesso in modo contraddittorio, soggette a tensioni che preludevano alla vita delle donne nel XX secolo.

L’epoca in cui viviamo è caratterizzata almeno per quanto concerne il mondo occidentale, da una accelerazione di molti processi ormai fuori da ogni controllo; si considerino quali indicatori, l’emancipazione della donna, nel privato, nel lavoro, nel sociale ( L.Grandi 2002).

Come egli sostiene si è di fronte ad una effettiva rivoluzione che scardina la tradizione delle aspettative di ruolo e del soddisfacimento dei bisogni, il che comporta, ed è inevitabile, il “seme della discordia”.

Discordia perché vengono frustrate le attese, spesso non chiaramente consapevolizzate. Discordia perché il maschio ravvisa nell’emancipazione della donna un abbandono dei valori e soprattutto un trascurare i suoi bisogni.

Ma come armonizzare una sfida progressiva con le forze che pressano l’uomo e la donna?

La differenza sessuale è anzitutto biologica, quindi è un dato di natura. Gli ordini simbolico, della rappresentazione, della significazione e del pensiero, attribuiscono il medesimo senso a tutti i dati di natura. Va detto che nella differenza sessuale in sé, come dato naturale, non è iscritta alcuna gerarchia. La differenza sessuale non esprime, di suo, la superiorità di un sesso rispetto all’altro.

La potenza creatrice del corpo femminile, ossia di quel corpo che genera la vita, è l’unico elemento gerarchizzante di questa differenza. La tradizione denominata patriarcale, affermando la superiorità del maschile sul femminile, ha inteso così reagire alla potenza materna, traducendo la differenza sessuale in una gerarchia di preminenza maschile in cui il femminile si limita ad un ruolo secondario. A questo stato di cose subentra, nella modernità, il principio di uguaglianza. Prima dell’avvento della società moderna e del principio egualitario era impensabile che una donna ricoprisse il ruolo di un uomo. Attualmente, dal punto di vista dell’ordine simbolico, ossia della rappresentazione, il femminile continua a essere pensato come naturalmente domestico, materno e il maschile come naturalmente dominante, intelligente, razionale, politico. Gli stereotipi permangono, ma in compagnia di meccanismi che consentono alle donne di essere immesse in ruoli prima riservati agli uomini. La donna emancipata è qualcuno che esce dal ruolo stereotipico femminile per entrare in quello tradizionale maschile. Ella può essere più brava degli uomini, ma a costo che interpreti un ruolo maschile. In sostanza si potrebbe dire che la donna imita il più delle volte il paradigma maschile. Questo è il paradosso dell’uguaglianza. Le donne fanno il loro ingresso nei luoghi tradizionali dei saperi e dei poteri solo se diventano surrogati del modello maschile, arrivando persino a scimmiottarne i gesti. Questo è un segno del fatto che non è affatto cambiato l’ordine simbolico, l’ordine della rappresentazione.

I termini del problema non sono quelli di mantenere la dicotomia esistente. Questa dicotomia dovrebbe essere spezzata perché è, in ogni caso, una dicotomia gerarchica, nella quale la differenza equivale a inferiorità. Per rompere la dicotomia sarebbe necessario ripensare la cosiddetta differenza sessuale, non registrandola più come una gerarchia.

Come sostiene L. Grandi (2002) infatti per il raggiungimento di una comunicazione autentica che tolleri la diversità, si dovrebbe affrontare l’inevitabile ambivalenza sottolineandone l’aspetto di complementarità.

In conclusione tale nostro lavoro, alieno dall’esprimere una valutazione, si è posto il fine di riflettere sulle difficoltà relazionali che si riscontrano nella società odierna .
Difficoltà legate al rapporto uomo-donna, in cui è difficile stabilire un contatto, un incontro, tra due polarità che si attraggono e si fondono armonicamente, è più frequente, invece, che si verifichino incomprensioni e divergenze dovute, forse, alla paura reciproca del potere dell’altro.
Quindi, la protesta virile può essere a tutt’oggi considerata con l’attenzione propria dei decenni scorsi?

Bibliografia

 ANSBACHER  H. & R., (1997), La psicologia individuale di Alfred Adler, Martinelli, Firenze.

ARGENTIERI S., (1999), “ Identità maschile e femminile” Il Grillo ( 13/04/99) tratto dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche.

CAVARERO A., (2000),“ La filosofia della differenza sessuale” Il Grillo ( 05/04/00) tratto dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche.

EINAUDI (2005), Enciclopedia Multimediale.

GALIMBERTI U., (2000), Dizionario di psicologia, UTET, Torino.

GRANDI L., ( 2002), E’fuori controllo il cambiamento nelle relazioni interumane,Il Sagittario, 12,Torino.

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PARENTI F., (1983), La psicologia Individuale dopo Adler, Astrolabio, Roma.

WAY L., (1969), Introduzione ad Alfred Adler, Giunti, Firenze.

Il mio riflesso negli occhi dell’altro. La malattia allo specchio

Il mio riflesso negli occhi dell’altro. La malattia allo specchio BLAST

Di Masci Antonella, Acuna Rolfi Clarisa, Calabrò Laura, Chiavarini Claudia, Grandi Gian Piero, Vegro Simonetta

Il corpo rappresenta uno dei più potenti veicoli comunicativi a disposizione dell’individuo capace di svelare e narrare diversi e molteplici aspetti di sé. Esso è il mezzo più duttile a nostra disposizione per dimostrare o comunicare i nostri stati interni.

Il corpo può essere aperto e recettivo all’altro oppure chiuso, tenendolo invece fuori; può essere adornato e curato o al contrario trascurato e attaccato, attraverso trasformazioni al limite delle possibilità. Corpo come luogo di incontro o come sede di un rifiuto.

Gli individui manipolano il proprio corpo forgiandolo su misura per donare forma e significato alle identità personali e sociali. Il corpo, infatti, non si sviluppa in un vuoto, vive in mezzo ad altri corpi con i quali si relazioni, ai quali dice delle cose, con i quali costruisce dei significati: è un corpo sociale. Non lo si può pensare al di fuori e al di la delle caratteristiche culturali che fanno da cornice a tutte le nostre vite e che esercitano una pressione, una influenza più o meno evidente su di noi e sulle nostre scelte. Le particolarità del corpo comunicano importanti informazioni sull’identità, i valori, e le affiliazioni, ovvero segnalano agli altri i significati che decidiamo di portare, sia come individui che come rappresentanti di un gruppo (Lemma, 2011).

Le modificazioni corporee per cui opta l’individuo inscrivono il corpo collocandolo in specifici ambiti fisici, culturali e perfino politici mediante delle scelte attive finalizzate ad un rispecchiamento che risulti il più fedele possibile all’identità della persona.

Ma cosa accade quando il corpo subisce delle trasformazioni anziché sceglierle, come nel caso di una malattia oncologica? Questo articolo propone una riflessione circa l’imprescindibilità dell’altro come testimone irrinunciabile della nostra esistenza nella costruzione dell’identità e nella definizione del Sé; l’altro come testimone della nostra esistenza coinvolto nei dinamici processi di riconoscimento e rispecchiamento. In questa co-costruzione di conoscenza il corpo rappresenta l’organo più esposto ma anche il più intimo, terreno nel quale si costruisce la relazione con l’altro, primo riferimento della nostra psiche, interfaccia tra un “dentro” e un “fuori”; custode di antiche memorie e, soprattutto, “contenitore” di un’identità, di una condizione, di una storia di vita.

Si è riflettuto quindi sugli inevitabili cambiamenti che la malattia impone nel e sul corpo e di come questi modifichino il processo di riconoscimento e di rispecchiamento dell’individuo nello sguardo, nel pensiero, nelle parole, nelle emozioni dell’altro.

Ri-conoscersi nell’altro

Il corpo e l’esperienza corporea sono costruiti nell’esperienza relazionale, ed entrambi la costituiscono. Il corpo, dunque, e la sua percezione, sono una costruzione che origina nella vita intersoggettiva, interpersonale e sociale. Esso è il territorio della relazionalità, punto di incontro con l’altro attraverso lo sguardo, la pelle, il corpo intero o le sue parti (Lemma, 2011).

Riprendendo il pensiero di Anzieu, possiamo affermare che il bambino acquisisce la percezione di una superficie corporea attraverso il contatto con la pelle della madre quando viene accudito o nutrito. Proprio a partire da questa esperienza corporea il bambino riuscirebbe, attraverso la rappresentazione dell’Io-pelle, a “rappresentarsi se stesso come un Io che contiene i contenuti psichici” (Anzieu, 1985, p.56).

Il corpo può essere considerato dunque una piattaforma della nostra identità e al tempo stesso territorio dell’alterità; un crocevia delle relazioni, punto di incontro e di scontro tra la storia individuale e la storia sociale.

Per tutta la vita il corpo resta esposto allo sguardo dell’altro e in questa circostanza di continua esposizione, costantemente si ritrova a raccontare la sua dipendenza fondativa dall’altro e dal suo desiderio.

Il riconoscimento di noi stessi e dell’altro – e dell’ altro di noi –  può essere considerato come la condizione base dell’identità individuale, la quale ha un suo elemento di specificità che risulta indipendente dall’altro, ma che necessita dell’alterità per essere riconosciuta: ciascun individuo ha un sentimento di sé, ovvero quella particolare familiarità con sé stesso, che caratterizza il modo primordiale con cui si percepisce, ma, al fine di potersi strutturare, ogni conoscenza necessità di un indispensabile momento di oggettivizzazione.

Il termine riconoscimento deriva dal latino cognosco: conoscere, apprendere e rinvia all’aspetto dinamico, costruttivo di una conoscenza, che non esiste a priori, bensì si esprime e si declina attraverso la pragmaticità del suo farsi, sempre nella e attraverso la relazione.

  1. Bateson, parla di ri-conoscimento in questi termini: “La relazione viene per prima, precede, prima della conoscenza e prima della coscienza,”….”siamo parte danzante di una danza di parti interagenti… la conoscenza é un atto creativo espressione della relazione tra parti interagenti per cui, “il nostro pensare è sempre un interpensare.“(Sergio Manghi). La scena in cui ci muoviamo, in quel teatro che è il mondo, quindi é sempre irriducibilmente plurale. “Non possiamo sapere nulla di alcuna cosa in sé, ma possiamo sapere qualcosa delle relazioni tra le cose.” (Bateson e Bateson, Dove gli angeli esitano). L’altro è perciò determinante nella co-costruzione della conoscenza.

La modalità comunicativa di questa conoscenza è la narrazione: è possibile accedere a temi di difficile conoscibilità – come l’identità – attraverso l’ascolto della loro narrazione. Una narrazione che avviene attraverso noi stessi e verso l’altro, espressione della nostra storia autobiografica che riceve una convalida di significato nel momento in cui l’altro porge l’orecchio, gli occhi, il corpo e la mente all’ascolto di essa. Essendo intrinsecamente relazionale, la narrazione rimanda ad un’immagine di noi con l’altro, che è mutevole ed in continua evoluzione generando l’unica conoscenza possibile, quella relativa, mediante l’autopoiesi.

 

Il riconoscimento nella malattia

La comparsa di una malattia che si manifesta significativamente sul corpo, ridefinisce i contorni e ne altera l’aspetto; in queste circostanze è fondamentale cogliere quelle modificazioni e quei cambiamenti che impattano sull’identità dell’individuo vittima di una trasformazione che non ha scelto. Il cambiamento irrompe e interrompe una narrazione della propria storia di vita, richiedendo un repentino rinnovamento del racconto personale a sé stesso e agli altri.

La malattia oncologica, nello specifico, si manifesta sul corpo attraverso le conseguenze dei trattamenti medici. Il soma subisce, infatti, delle trasformazioni che “toccano” la pelle, il viso, i capelli e la postura testimoniando, mediante questi segni espliciti, la presenza della malattia che abita il corpo. L’individuo può scegliere di non raccontare la propria nuova storia, di non definirsi “malato” tentando di nascondere i segni della malattia, ma il corpo, come un oratore sincero ed eloquente, non potrà evitare di “narrarsi” all’altro, poiché esso rimane un luogo esposto: segnabile dall’impronta dell’altro attraverso il suo sguardo (Lemma, 2011).

Sul corpo possiamo ritrovare le tracce del disagio, del malessere, della fatica, della fragilità psichica, fisica ed esistenziale che, nell’incontro con l’altro e attraverso il rispecchiamento del corpo malato negli occhi dell’altro, può suscitare dei profondi e atavici vissuti emotivi quali angoscia di morte, paura, rabbia, invidia, pena o impotenza. In entrambi i soggetti della relazione.

La nuova condizione di malattia, le modificazioni psichiche e corporee richiedono all’individuo una riorganizzazione della propria identità e, dunque, della narrazione della propria storia di vita che dovrà ora connettere passato e presente consentendogli di ri-conoscersi.

Partendo dalla considerazione che il corpo rappresenta uno strumento comunicativo e che l’immagine corporea, intesa come la sua mentalizzazione, è legata a concetti quali l’autostima (Lerner et al., 1973), l’ansia sociale (Cash and Smith, 1982) e l’autoconsapevolezza (Thompson, 1990), si comprende l’importanza che assume l’aspetto esteriore e il suo significato esplicativo. Nel caso di malattie che attaccano significativamente l’aspetto corporeo il riconoscimento di sé cambia, come cambia anche il riconoscimento che l’altro ha di noi, ripercuotendosi sulla nostra percezione e generando nuovi significati che vengono recepiti e restituiti dall’altro, come fossimo davanti ad uno specchio.

Una ricerca condotta nel 2008 (J. M. Hormes, L. A. Lytle, C. R. Gross, R. L. Ahmed, A. B. Troxel & K. H. Smitz) dimostra come le donne sopravvissute al cancro al seno, che hanno subito modificazioni corporee come la mastectomia, siano influenzate quotidianamente dalla percezione dell’immagine del proprio corpo, il quale diventa il contenitore della malattia che trasmette informazioni su di essa all’altro. La relazione con il mondo esterno passa attraverso questo nuovo corpo che diviene spesso una barriera a livello sociale e sessuale, e può esprimersi con l’evitamento di situazioni sociali e di intimità col partner (L. R. Schover, 1991).

Conclusioni

La malattia oncologica comporta delle significative, tangibili, esplicite, osservabili e profonde trasformazioni sia sulla psiche sia sul corpo che mettono l’individuo nella condizione di ri-pensarsi, ri-definirsi nella propria identità integrando in essa i cambiamenti che la malattia gli impone. Si tratta di un processo articolato e spesso doloroso che senza dubbio richiede la presenza dell’altro poiché la condizione stessa dell’identità individuale, come abbiamo visto, è data del riconoscimento. L’identità del singolo, infatti, necessita dell’alterità per essere riconosciuta: ciascun individuo ha un sentimento di sé, ma, al fine di potersi costituire, ogni conoscenza esige un indispensabile momento di oggettivizzazione, ossia del riconoscimento dell’altro.

I segni della malattia si inscrivono sul corpo, lo alterano nel suo aspetto e nella sua percezione.  Essi non si possono nascondere: “Essere calva sarebbe diventato quello che avrebbe urlato al mondo che ero malata di cancro”.

Terreno della relazione, dell’incontro, di negoziazione dei significati, di mediazione tra il “dentro” e il “fuori”, il corpo non può sfuggire allo sguardo dell’altro e, nel caso esso stia lottando contro il cancro, questo diviene praticamente inevitabile. Sul corpo si ritrovano, infatti, le tracce del disagio, del malessere, della fatica, della fragilità psichica, fisica ed esistenziale che, nell’incontro con l’altro vengono restituiti alla persona come fossero immagini riflesse in uno specchio. Attraverso un continuo processo di scambio e di rinegoziazione di conoscenza e, quindi, di significati, il rispecchiamento del corpo malato negli occhi dell’altro altera la percezione che l’individuo ha del proprio corpo e di sé e lo invita a prender parte a  quella danza interattiva di definizione dell’identità che può esplicarsi e costruirsi unicamente  nel campo della relazione.

La memoria del corpo e i territori dell’anima

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Di Lino G. Grandi

La relazione si soffermerà sulla costruzione del cervello cosciente, processo esteso nello spazio e nel tempo.

Verranno considerate le proposizioni di David Hume e di René Descartes e si osserverà come l’armonia fra i disparati eventi esperenziali può attivare lo stato di coscienza. Il sé, come la mente, non è separato dal corpo. Damasio afferma che il sé è un carattere emergente che si è assunto di definire del “quarto ordine perturbativo”.

Verranno esplicitati i modi di essere dell’identità e ci si soffermerà sull’unità della coscienza.

Qualche cenno verrà concesso alla costituzione del sé ed alle problematiche connesse attivando la relazione con l’altro, considerando l’intersoggettività, l’interrelazione, le emozioni e le sensazioni. Sé e altro da sé, si evince nel lavoro psicoterapico, sono correlabili a livello del corpo.

Si cercherà anche di presentare la linea evolutiva dello sviluppo e si proporranno indicatori della memoria implicita e di quella esplicita, con particolare riguardo alla coscienza autonoetica.

Tempo consentendo, si condividerà la relazione tra stress, traumi e memoria.

Qualche riflessione sarà poi proposta rispetto all’anima, troppo spesso straniera sulla terra; ci si addentrerà nel territorio della nostalgia, nella sua dimensione spazio-temporale e verranno presentate esplicitazioni tratte dall’esperienza analitica. Esilio, sradicamento, incomunicabilità, psicologica sordità, lo sguardo sperduto.

Ma come rappresentare i paesaggi dell’anima? Come avvicinarci al linguaggio del corpo?

L’esperienza del corpo in psicopatologia merita riflessioni ed approfondimenti. Possiamo considerare, fra gli altri, quale obiettivo di un’analisi, il recupero degli orizzonti emozionali del corpo?

VIOLENZA: “USCIRNE È POSSIBILE”

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fonte

“Nessun trauma può essere totalmente cancellato ma elaborato sì. Le vittime di violenze, con un buon trattamento psicoterapeutico, possono acquisire strumenti nuovi per aprirsi nuovamente alla vita”. Ne è convinta Francesca Di Summa, direttore della Scuola Adleriana di psicoterapia (sede di Torino), sulla base della sua lunga esperienza di consulente presso i tribunali civili ed ecclesiastici di Torino con persone che hanno subìto abusi. “E’ possibile aiutare le donne vittime a ricostruire l’autostima, minata da una dipendenza affettiva”, spiega al SIR, a margine della sua relazione di oggi al seminario “Rel-azioni violente. La violenza e i suoi linguaggi”, promosso dal Gruppo Abele ad Avigliana (Torino) fino a domani. Alla base del lavoro terapeutico, precisa, “ci sono alcuni punti-base, come il riconoscimento, nelle relazioni di abuso, dell’intermittenza di momenti di estrema violenza e momenti di dolcezza. Le vittime tendono a concentrarsi solo sugli aspetti positivi e a rimuovere invece gli aspetti della violenza”. Inoltre, “molte vittime hanno subito nell’infanzia dei traumi che hanno azzerato le loro potenzialità di resilienza, che permettono alle persone di resistere agli urti e alle avversità della vita. La terapia cerca di rintracciare queste potenzialità”.

“Bambini corazzati”: il nuovo immaginario infantile e i processi di incoraggiamento in psicoterapia

“Bambini corazzati”: il nuovo immaginario infantile e i processi di incoraggiamento in psicoterapia BLAST

di Lerda Gian Sandro


L’immaginario infantile da sempre è popolato di personaggi coraggiosi che, affrontando difficoltà e pericoli, lupi cattivi e perfide streghe, raggiungono insperate mete e conquistano cuori e ricchezze. E attraverso processi di identificazione i bambini si incoraggiano ed affrontano paure, risolvono dubbi, elaborano sentimenti ambivalenti. Recentemente nuove figure e nuovi scenari affollano la fantasia dei bambini: Gormiti, Dragonball e Winx si sostituiscono ai Cappuccetto Rosso e ai Pollicino, talvolta offrendo la medesima possibilità di rappresentare ed elaborare gli stessi contenuti del mondo interno semplicemente “vestiti” in modo differente, più spesso favorendo l’espressione ed il rinforzo di nuovi bisogni prodotti dalla cultura contemporanea. Ai temi del superamento del sentimento di inferiorità e delle paure di separazione attraverso azioni coraggiose supportate da doti interiori quali intelligenza e solidarietà insieme ad un pizzico di magia, si sostituiscono prepotentemente ed onnipotentemente i temi dell’aggressività distruttiva, della potenza, della difesa e del prevalere sull’altro. I nuovi personaggi fantastici, che sommano senza fine corazze ed evoluzioni, rimandano più ad un vissuto profondo di estrema impotenza da cui si sviluppano sovra-compensazioni onnipotenti che ad un fisiologico processo di crescita. La comunicazione si pone l’obiettivo di analizzare i nuovi scenari dell’immaginario infantile, come questi si presentino nel setting psicoterapeutico e come possano essere “giocati” dalla coppia bambino-terapeuta in chiave incoraggiante per favorire i processi di crescita ed affrontare i nuclei problematici. 

ADOLESCENTI E DIGITALE. La crescita nell’era 4.0

ADOLESCENTI E DIGITALE. La crescita nell’era 4.0 BLAST

Di Stefania Caudana

Ci sembra interessante, all’interno di questo lavoro, affrontare quali implicazioni culturali, sociali e psicologiche abbia il digitale  nello sviluppo dei giovani. In particolare se e come le “relazioni virtuali” sostituiscano, integrino o entrino in conflitto con quelle “tradizionali”. È allora necessario considerare che ogni nuova generazione, per potersi individuare, deve seguire un proprio percorso culturale. Nell’era digitale come si muovono gli adolescenti nel loro processo di crescita? Quali sono gli scenari ed i confini entro i quali si formano? Come possiamo, noi adulti, entrare in un contatto autentico con loro e accompagnarli verso l’adultità? Quale il rapporto tra il mondo reale ed il mondo immaginario/virtuale? E il corpo, così centrale in adolescenza con le sue complesse modificazioni, che ruolo gioca? Queste e molte altre domande vengono poste quando incontriamo le agenzie formative (genitori, insegnanti, educatori, …) che si trovano a dover affrontare il complesso mondo adolescienziale. Se per adolescenza continuiamo a considerare quel periodo evolutivo che ha come compito centrale il processo di separazione e di individuazione rispetto alle figure genitoriali e al modello da loro offerto, certo appare ulteriormente complicato il processo volto alla costituzione della propria identità, affiancata spesso quando non sostituita da identità virtuali che il ragazzo sente come autentiche, con l’impossibilità di vivere le necessarie esperienze, anche frustranti, che portano attraverso l’azione sul e nel  reale, alla consapevolezza della propria forza e delle proprie caratteristiche. Certo tutto ciò porta come conseguenza anche la presa di coscienza dei propri limiti: nel virtuale, in modo esattamente contrario a ciò che avviene nel reale, il mondo si apre ad una infinità di “possibili”, nessuno realmente vero, ma nessuno a rischio di doversi confrontare con il limite degli oggetti fisici. Ecco che l’adolescente, quasi per sfuggire al rischio di scoprire in cosa non eccelle, cosa non ha, nella finzionale sensazione di “potere” tutto, non permette alle proprie capacità di prendere forma, di diventare reali, con il relativo senso di poter agire sulla realtà: cercando di mantenere l’infantile sensazione di onnipotenza, aiutato dalla dimensione virtuale, sviluppa a poco a poco un invalidante senso di impotenza e di vuoto. Ma un ambiente di possibilità infinite non è per nulla nutriente, anzi diventa annichilente se non è reale. In questa onnipotenza virtuale le nostre società sembrano aver abbandonato la sfera del pensiero e ogni scelta è diventata così angosciante che non è più possibile attuarla. Si accompagna a questo uno scarso utilizzo del corpo che nell’era digitale risulta sempre più alienato rispetto alla persona, sempre meno accessibile. Spesso la difficoltà di comunicazione tra genitori ed adolescenti fa riferimento all’utilizzo di due “linguaggi” differenti: le generazioni precedenti utilizzano il linguaggio analogico _ regno in cui si sviluppa il simbolico_ mente i ragazzi utilizzano appunto il linguaggio digitale, che utilizza un sistema binario basato sulla percezione. Quest’ultimo scenario è ben rappresentato nella serie “Black Mirror”, serie cult oscura in cui le tecnologie, applicate al corpo, arriveranno a distruggere i capisaldi attraverso i quali siamo soliti definire il campo delle nostre azioni, delle nostre responsabilità, dei nostri desideri. Il tutto in una realtà frammentata come quella digitale, in cui concetti come il tempo e lo spazio subiscono trasformazioni epocali, in cui l’incontro con l’altro è sostituito dal contatto spesso mediato dagli strumenti tecnologici. Cosa possiamo fare noi adulti, disarmati dei vecchi strumenti, ad aiutare questi adolescenti digitalmente modificati? Prima di tutto dobbiamo entrare nel loro mondo, conoscerlo, farci accompagnare da loro; solo così, da dentro, potremo cercare di aiutarli a “rallentare” la velocità delle immagini, per poterne fermare qualcuna e gettare le basi per la creazione della capacità di pensiero, di ri-flessione, di argomentazione. Il digitale ha offerto grandi opportunità, se non si perde tutto quello che è la storia: anche nell’era 4.0 alcuni passaggi di crescita necessitano ancora degli stessi elementi e forse… i ragazzi stanno solo cercando i loro. Ma la ricerca richiede che non si sia soli.

“Lino G. Grandi, non ti stanchi di ripetere, quando parliamo di adolescenti, di fare attenzione a non viziarli. Ricordi come la società narcisistica e individualistica abbia preso in ostaggio gli adolescenti imprigionandoli in gabbie dorate piene di oggetti e di sollecitazioni, ma povere di relazioni e di affetti autentici. Non temiamo l’incontro con i nostri figli, né di farli soffrire. Grazie.”

LA COMUNICAZIONE IMMEDIATA DEL TUTTO E SUBITO… I SIGNIFICATI DI WHATSAPP

LA COMUNICAZIONE IMMEDIATA DEL TUTTO E SUBITO… I SIGNIFICATI DI WHATSAPP BLAST

Di Stefania Caudana

Che la comunicazione cambi continuamente grazie ai nuovi mezzi, social, app… è chiaro a tutti e non possiamo non tenerne conto. Soprattutto i giovani sembrano averne familiarità, ma anche tra gli adulti il modo di comunicare per status, like e tweet prende sempre più piede. Anzi, proprio i meno giovani appaiono più vulnerabili a certe ferite che arrivano facilmente online, spessdo per personali fragilità. La comunicazione è relazione,  pertanto anche le relazioni di conseguenza cambiano. Nelle coppie, tra gli amici, tra colleghi, la connessione costante è diventata la regola. La preoccupazione sale quando l’altro non risponde o non si connette per qualche ora. La nuova tecnologia rende necessario interpretare tutta una serie di sfumature che non sempre aiutano la relazione. Il controllo prende piede, non lasciando spazio nella relazione alla fiducia di crescere con i suoi tempi. Cosa ci dice questo? Che la comunicazione social avviene in modo diverso, impedisce sfumature, sguardi, non ha espressioni e va educata da una parte e accettata e usata con consapevolezza dall’altra.

E come la mettiamo con WhatsApp? Si tratta di un modo di comunicare veloce, aperto, per foto, vocali e brevi frasi. La cosa interessante è che questa App elimina l’imbarazzo verso l’altro in maniera ancora più netta di quanto non faccia già lo schermo di un pc quando si naviga nei social.

L’immediatezza, che ne fa un apprezzato strumento nell’epoca del “tutto subito”, spinge gli utenti ad essere molto diretti. Sappiamo quando l’altro ha effettuato l’ultimo accesso, sappiamo che ha letto il nostro messaggio, sappiamo che non ha risposto. Gli ingredienti della crisi ci sono tutti, perchè vanno a nutrire le debolezze di ognuno di dubbi, di informazioni parziali, pensieri quasi magici su quello che l’altro prova e sulle cause degli eventi.

Tutto è veloce e frammentato e segnato da ossessioni (comprare, chattare, relazionarsi, essere online) che nascondono la paura di non esistere e alimentano il senso di solitudine. In questo, app e social, da una parte offrono una finestra sul mondo sempre aperta, utilizzabile quando ci si annoia, quando si ha bisogno di qualcuno, quando ci si sente soli, dall’altra danno a tutto un colore di urgenza e di ansia qualora il nostro messaggio non venga subito recepito come noi desidereremmo. La frustrazione non trova posto in questa comunicazione. L’attesa si carica di domande che non accettano lo spazio dell’altro. Un silenzio come risposta ad una qualunque frase su WhatsApp ha il potere di abbassare l’autostima, di peggiorare l’ansia, di rinforzare la sensazione di fragilità. L’attesa diventa impossibile da accettare, come il tempo dell’altro e delle cose della vita.

Fermiamoci un attimo a pensare e valutiamo se abbiamo deciso di farci fagocitare da modi di comunicare e di relazionarci di questo tipo oppure desideriamo riprendere la consapevolezza e la gestione dei nostri rapporti, utilizzando tali strumenti di importante evoluzione con il significato che dovrebbero avere.

Trauma e psicoterapia: appunti di lavoro

Trauma e psicoterapia: appunti di lavoro BLAST

Di L.G. Grandi

L’edificio teorico del traumatismo psichico, quale teoria esplicativa della psicogenesi delle nevrosi, palesa crepe sempre più evidenti e viene sostituito dalla teoria della fantasia di desiderio. Il baricentro psicogenetico delle nevrosi diviene così appannaggio più dell’endon che della relazione. Si propone quindi una diserzione del mondo interattivo a favore di un’introflessione dello psichico nei confini della mente. I traumi infantili vengono a costituire una categoria entro la quale anche la clinica dell’adulto viene pensata. Si procede pertanto nella ricerca della “costituzione di un senso” di quanto si osserva e le caratteristiche richiamano un processo analogico metaforico.

La clinica terapeutica si deve preoccupare degli emblemi dei traumi infantili o di allusioni ad essi. Il trattamento deve poter generare “situazioni” come premesse per poter avviare prima un processo di separazione, quindi di sviluppo. Spesso si riscontra un antagonismo e un’incompatibilità fra il trauma e la sua rappresentazione. Particolare attenzione viene posta a ciò che non ha avuto luogo, e si deve considerare ciò che non ha potuto avere luogo, e cioè “un’esperienza dolorosa negativizzante” che comporta un’“auto-lacerazione”. Il traumatico finisce con l’indirizzare l’aspetto più specificatamente economico del traumatismo, in relazione alla fragilità e ad un difetto del parastimoli. Concludendo: il trauma designa essenzialmente la forza negativa e disorganizzatrice dell’azione traumatica.

SE UCCIDIAMO LA SCUOLA E GLI ANZIANI UCCIDIAMO IL FUTURO

SE UCCIDIAMO LA SCUOLA E GLI ANZIANI UCCIDIAMO IL FUTURO BLAST

Di Stefania Caudana

I segni delle mascherine pian piano svaniranno, ma non le loro tracce nella psiche e nella nostra storia.

A questo potrà giungere riparatrice la funzione narrativa che noi uomini possediamo: costruire storie capaci di raccontare ciò che è accaduto, per creare ponti simbolici e di significato che superino le fratture (traumatiche) presenti nella psiche individuale e collettiva. La speranza deve trovare spazio e per guardare avanti appare necessario rivolgersi indietro: alla storia dell’umanità, ai suoi tanti cicli, alle risorse ed alla forza che da sempre l’uomo ha dimostrato di possedere e alla possibilità di rinascita che deriva dal dolore e dalla paura, dalla conquista della libertà, in primis di pensiero e di ragionamento. Una libertà correlata al senso di responsabilità e di appartenenza. Qui si inserisce il valore della scuola e della formazione; spesso troppo attenti ai contenuti e agli aspetti prestazionali, sono molti i genitori preoccupati dal mancato svolgimento, durante l’anno di pandemia, di parti del programma scolastico. Ma ben altro li dovrebbe preoccupare. Che cosa rappresenta la scuola? Cosa hanno perso i bambini e i ragazzi in questo periodo di Covid-19? La scuola non è soltanto un luogo dove si imparano delle cose, ma un potente e fondamentale luogo formativo; è principalmente una “scuola di vita e di crescita”, un susseguirsi di esperienze che i nostri figli vivono (e speriamo tornino presto a vivere!), per misurarsi con gli altri, per riconoscere e superare le proprie paure ed ansie, per costruirsi ed impegnarsi in obiettivi, per affrontare prove, accettare fallimenti, gioire delle proprie e delle altrui conquiste, sperimentare la dimensione comunitaria e gli aspetti che la caratterizzano, incontrare i propri talenti e i propri limiti. È primariamente relazione: con se stessi, con gli altri, compagni ed insegnanti che siano. È comprensione che, come la storia insegna, si può crescere solo tutti insieme.

Da tale esperienza scaturiscono, in un continuo incontro con il diverso e con il  cambiamento che caratterizza le “cose” della vita, gli elementi necessari alla costruzione della persona: il riconoscimento del proprio valore, l’accettazione dei limiti propri e della vita, la capacità di ragionare e le nuove conoscenze, anch’esse dimensioni relazionali. I singoli contenuti e le singole materie, per quanto importanti da acquisire, rappresentano l’occasione, il ponte che permette di entrare nel mondo interno del ragazzo, creare movimento e condurlo ad un processo espressivo, cioè a dare forma e vita a quello che ha dentro, mettendolo fuori. Questo è stato tolto ai bambini ed ai ragazzi dal virus: la dimensione relazionale che sta alla base della scuola. L’esperienza ha dato la possibilità di far emergere, in quei soggetti che le possedevano, competenze organizzative rese necessarie dal venire meno del “contenitore scuola”. Ciononostante, ci si augura una ripresa degli enti formativi e scolastici in presenza per consentire (testimone giunge nuovamente la storia dell’uomo) che dalla crisi possa generarsi una forza vitale ed innovativa e che le nuove generazioni recuperino i valori fondanti dell’uomo e della vita.

Anche l’anziano, non tanto come soggetto fragile da proteggere, immagine alla quale preferisco contrapporre quella di persona a cui dedicare gratitudine e cura per ciò che ha affrontato, costruito e lasciato a noi in eredità, va visto come uno dei valori da riscoprire. In una dimensione ciclica, come ancora la natura ci insegna, l’anziano non rappresenta una candela che lentamente si spegne, ma un tassello fondamentale per la società, per i giovani e per il futuro; l’esperienza che ha acquisito, le abilità che solo lui possiede, la sua  narrazione della storia, quel guardare indietro per andare avanti, in lui e solo in lui abitano e se l’uomo dimostrerà di avere ancora un minimo di istinto di sopravvivenza e di intelligenza ne recupererà il valore ed il significato. Se uccidiamo la scuola e gli anziani, uccidiamo l’uomo e il suo futuro.

Sulla figura materna

Sulla figura materna BLAST

Di Francesca Di Summa

Svolgo l’attività di psicoterapeuta con preparazione specifica di Analista e di formatore di analisti. Svolgo altresì l’opera di consulente dei Tribunali Civili e penali adempiendo ai compiti di perito, cioè di Consulente tecnico di ufficio.

Riconsiderando la mia operatività, e confrontandola con colleghi in gruppi di ricerca e di supervisione, sono giunta a convincimenti ed aggiornamenti che sarebbe mio desiderio condividere in questa sede con gli studiosi e ricercatori qui presenti.

Considerato lo spazio concessomi, mi soffermerò unicamente su di una problematica; la espliciterò e presenterò alcune riflessioni, che vorrei qui condividere e riprendere in considerazione con i ricercatori dell’Istituto di Psicologia Individuale “A. Adler”, coordinati dal nostro supervisore, il professor Grandi.

Il concetto che presiede questa comunicazione però può essere così riassunto: “ una non completa od incongrua o disarmonica dalla figura materna nel processo di crescita psicologica di un soggetto fatalmente contribuisce al promuovere una immaturità affettiva, una carenza di progettualità, un ostacolo ad un effettivo incontro con l’altro, a disarmonie di vario ordine e genere e quindi a confluire, in modo quasi inesorabile, in un processo di crescita di un conflitto e quindi di separazione della coppia, allorché tale soggetto giunge al matrimonio.

È noto a tutti che la funzione materna presiede all’impianto delle fondamenta di una progressiva sicurezza affettiva, del processo di autostima, del riconoscimento dell’altro come “altro da sé”, e della fiducia di base, nonché di un atteggiamento fiducioso.

Una amorevole attenzione ai bisogni di tenerezza del bimbo, che solo una madre sufficientemente buona sa esprimere con misura e compiutezza, è la forza promuovente dello sviluppo delle potenzialità empatiche, del sentimento sociale e dello spirito di cooperazione dei figli. Contemporaneamente favorisce, purché non incistato in una simbiosi, il riconoscimento e la significatività della figura paterna, permettendo l’avviarsi di una costruttiva relazione, necessaria per un armonico processo evolutivo.

La figura materna consente l’espressione di cure teleologicamente orientate, non anonime, ben individuate e caratterizzanti l’incontro col proprio figlio, con i diversi figli, ognuno dei quali è realtà a sé stante, specifica ed irrepetibile; viene così reso possibile un suo originario ed originale riconoscimento, e favorisce il primo accesso al linguaggio. Nei primi due anni, l’emisfero destro del cervello del bimbo è il primo a svilupparsi ed è preposto ad elaborare la comunicazione non verbale: il cucciolo dell’uomo apprende così a riconoscere i volti ed a leggerne le espressioni, mettendoli poi in relazione con le persone. Tale emisfero elabora la componente musicale del linguaggio o il tono attraverso il quale si comunicano le emozioni; i gesti visivi non verbali tra una madre ed un bambino vengono istintivamente appresi, quindi elaborati. Si diffonde così un afflato di tenerezza, indotto da una armoniosità espressa dal non verbale e dalla musicalità della voce, musicalità che connota la relazione della madre con il figlio e che deve essere considerata con partecipe emozione, evitando- per quanto possibile- toni che possono offendere la sensibilità accentuata ed immatura del piccolo, immerso nella sua fragilità.

Il cammino verso l’acquisizione del linguaggio passa necessariamente dai suddetti percorsi e l’uso appropriato del linguaggio è un derivato dal rapporto con la madre e dalla sua voce, dal suo modo di parlargli, dall’induzione empatica di stimoli e suoni che progressivamente vengono accolti per essere riproposti.

La tappa evolutiva che si è andati a descrivere, lascia tracce indelebili nel tempo e nella strutturazione del Sé dell’uomo che sarà, quando perverrà all’adultità.

E per riprendere il tema delle difficoltà che si riscontrano nelle relazioni di coppia, lavorando analiticamente a ritroso, si perviene a disegnare una figura materna sofferente di carenze che non hanno consentito il necessario processo evolutivo e, più nello specifico per non disperdersi nella disparata gamma di disagi e di disturbi che incontriamo quotidianamente, non è stata in grado di accompagnare il figlio verso il padre, di favorirne la relazione, di organizzare le basi che avrebbero potuto consentire l’incontro.

Procreare un figlio non è causalità, è progettazione, è scelta, è concretizzazione di uno stile di vita e di una weltanschang; in definitiva è un patto che si attua ed avvera nel concepimento e che richiede cooperazione. Si debbono assumere consapevolmente i ruoli di madre e di padre: la donna e l’uomo si accingono ad introdurre modifiche nella propria vita, si preparano a fronteggiare e gestire le inevitabili variabili che la vita proporrà, si aiuteranno ad affrontare percorsi nuovi.

Spesso però la donna, assunto il ruolo di madre, tende a rimuovere i presupposti che hanno sancito il patto e promuove, non sempre consapevolmente, una dinamica relazionale col figlio che può assumere i connotati della esclusività: ciò può non essere funzionale ad una sana crescita ed evoluzione del bambino poiché può venire a mancare la pregnanza affettiva e creativa del partner, spesso invaso da sentimenti di insufficienza e di esclusione.

È pur vero che il periodo della gestazione induce l’immersione in sentimenti particolarmente intensi che favoriscono sensazioni e percezioni di esclusività, quali il sentire il nascituro come fosse parte fisica del proprio corpo, praticamente un tutt’uno, ed il momento del parto è espressione di gioia ma anche l’avvio di un distacco, di una dolente percezione che si è data la vita ad un soggetto dotato di una propria individualità e di proprie esigenze, che è altro da sé rispetto alla madre: può anche essere percepito un disagio esistenziale sgradevole, quasi si trattasse di una amputazione e spesso – per lo meno- di una deprivazione, che in diversi casi inducono il ben noto disturbo indicato come depressione post-partum. Psicologicamente si tratta di un vissuto traumatico che la donna vorrebbe in qualche misura contenere, quasi a voler ripristinare l’originaria unità mentre pressioni psico-ambientali la sommergono di stimoli perché venga accolta la separazione dal proprio figlio, il riconoscere appunto di aver generato un esserino che è “altro da sé”. La madre ferita nella sua integrità deve consapevolizzare che la relazione col figlio non è diadica, bensì deve prevedere tutto uno spazio terzo, occupato spesso in modo maldestro dal padre: e ciò tuttavia è necessario perché il bambino possa essere avviato verso un processo sano di crescita psicologica.

Perché sia consentito il processo di separazione, deve primariamente essere gestito il trauma; lo si deve ricomporre integrandolo nelle funzioni vitali dell’Io, lo si deve poter tradurre in movimento per la vita, lo si deve rivestire della visione simbolica di un atto creativo. La madre dovrà recuperare nel fondo del proprio animo quanto appreso nell’arco del suo processo di crescita ed esperienziale ed al contempo consapevolizzare la sua specificità primaria che include, non esclude , il preservare l’immagine di sé come donna; si tratta di specificità che contempla anche la maternità, ma non si esaurisce nella maternità stessa, poiché un aspetto pur importante non può né deve soffocare il valore assoluto dell’essere donna, e nello specifico la sua pregnanza di soggetto portatore di significato e di senso.

Solo ricomponendo i tasselli che configurano armonicamente l’essere donna nella variegata ed armonica unità esistenziale, sarà possibile essere madre senza annullarsi nel viversi solo ed unicamente come madre: l’auspicio è che si esprima come madre, ma “non tutta madre”, poiché diversamente sarà ben difficile che al bambino venga permesso di sganciarsi da una adesione simbiotica alla madre stessa.

Si è inoltre avuto modo di osservare che il divenire madre può soffocare positive significatività, anche relativamente ai tre ben compiti vitali. Ne vogliamo qui considerare uno, pur permanendo nell’area dell’amore. Si consideri in proposito il processo di allontanamento, il trascurare ad es. il ruolo di moglie gestito con efficacia e positività prima della maternità. È frequente constatare che il ruolo di madre ha soffocato o per lo meno ridimensionato quello di moglie. E’ come se si stesse progressivamente strutturando una nuova coppia, certamente capace di gratificazioni narcisistiche, che si nutre di se stessa ed esclude la comunità, anche la precedente micro-comunità, così come funzionava (se funzionava) prima del parto. Può pertanto concretizzarsi una nuova relazione privilegiata e simbiotica, che porta però con sé il germe del disturbo, della malattia.

Madre-bambino che si incapsulano nella relazione simbiotica, escludono inevitabilmente il padre, ne annullano la funzione, si deprivano del potenziale che può esprimere, non gli consentono di onorare il ruolo di promotore di socialità e di cooperazione, e viene così disattesa la funzione vitale necessaria per avviare il processo di separazione – individuazione.